La concessione
del telefono |
di Carmelo La Carrubba |
Finalmente a Teatro Camilleri ha trovato la giusta collocazione
scenica frutto di una rielaborazione laboriosa ma incisiva dell’Autore e
di Giuseppe Dipasquale che ha curato anche la regia di uno
spettacolo che attraverso la comicità della satira ha affrontato il tema
della burocrazia e del suo Potere mortificante nei confronti del
cittadino. Parliamo de “La concessione del telefono” lo
spettacolo in scena al Teatro di Trecastagni per lo Stabile Verga di
Catania .
Una
storia vera dai risvolti surreali in cui lo svolgimento, nelle sue linee
essenziali, si scontra con il paradosso di situazioni che svelano verità
inquietanti. E’ una vicenda che si svolge nella fantastica e mitica
Vigata, mondo storico di Camilleri, popolata da personaggi reali, con
fatti accaduti ma oltremodo emblematici, capaci di disegnare i
lineamenti di una Sicilia arcaica e moderna, cinica e tragica,
ferocemente logica e paradossale ad un tempo. Una favola in forma di
metafora storicizzata e storicizzante in cui i personaggi sono irreali
ma credibili, paradossalmente sono veri ma non hanno di ciò
consapevolezza altrimenti si romperebbe l’incanto. Il tutto si svolge
nel 1891 in epoca post-risorgimentale in cui il Prefetto esprime la
potenza del Potere dello Stato nei confronti del territorio e dei
cittadini, ben coadiuvato da questori, funzionari, carabinieri e
polizia. Pippo Genuardi, il protagonista, è un fessacchiotto simpatico,
in apparenza mostra un savoir vivre e ha una esuberanza virile ben
apprezzata da moglie ed amanti. Interpretato con bravura da Francesco
Paolantoni il personaggio, in fondo, non se la gode come vorrebbe a
causa della burocrazia che per un banale errore ( ha chiamato il
Prefetto Marascianno Parascianno – una P al posto della M – ingenerando
una montagna di equivoci (e di carte) in una mente distorta e
predisposta alla follia del Potere) con stupidi cavilli gli nega la
concessione di una linea telefonica privata che gli consentirebbe di
contattare più facilmente l’amante. Il protagonista per i vari
contrattempi da uomo esuberante e gioioso diventa disperato al punto di
ricorrere al mafioso don Lollò per risolvere il problema ma anche questo
Potere produrrà equivoci e pericoli.
In questa vicenda dai risvolti paradossali – ma realisticamente
possibile anche ai nostri giorni – si può essere vittime del potere,
delle istituzioni, della mafia e della stupidità umana sono coinvolti
prefetti, geometri, direttori generali, ministeri con competenze
esclusive di vario ordine e grado, commercianti, proprietari terrieri:
un caleidoscopio di personaggi e situazioni che coinvolti dal vortice di
una burocrazia che affoga nei falconi prodotti, ha creato un archivio
pieno di carte insinuando il sospetto che anche i personaggio siano di
carta e non tanto perché frutto della penna di Camilleri ma diventano di
carta perché ogni loro iniziativa viene trasformata in carta bollata,
autentica notarile, protocollo sempre da quella burocrazia che accumula
e non risolve riempiendo gli scaffali di falconi impolverati. Da qui
l’idea di Antonio Fiorentino di creare un polveroso archivio intasato di
falconi cioè la scena di immenso valore metaforico dove si svolge la
vicenda dei nostri eroi i quali avranno i costumi , ideati e disegnati
da Angela Gallaro, di carta. Gli stessi intendimenti nel ri-creare una
sicilianità non di comodo informano le musiche di Massimiliano Pace che
hanno sottolineato con ironia e convinzione lo svolgimento delle vicende
mantenendo il tono comico, tragicomico dello spettacolo..
Ad apertura del libro di Camilleri c’è una citazione da Pirandello de “I
vecchi e i giovani” che diventa la chiave di lettura di questa storia
che ha radici antiche e profonde quando l’agrigentino parlava del
rapporto dello Stato con la Sicilia “povera isola trattata come terra di
conquista” e dei siciliani come “poveri isolani trattati come barbari
che bisognava incivilire”. Dove il potere non risolveva i problemi
urgenti dell’Isola ma promuoveva inchieste, commissioni parlamentari per
verificare, inviava funzionari per cercare i ribelli, i sovversivi a
tutti i costi nell’illusione di dare serenità alla popolazione. Nella
messa in scena di questa storia tragicomica eccelle la regia di
Dipasquale che ha dato la giusta collocazione scenica alle vicende dei
personaggi creando una drammaturgia che esalta i dialoghi, la parlata di
Camilleri frutto di un impasto lessicale che diventa una lingua dalla
robusta sintassi, con una sua particolare identità e musicalità che
rispecchia la sicilianità degli avvenimenti, il tessuto storico ed
antropomorfo dove vivono i personaggi, svelando la verità di situazioni
che anche nel paradosso presentano un delitto di onore ( il suocero che
uccide il genero perché è diventato l’amante della sua giovane moglie)
come un attentato politico. Altra costante della regia che ha reso
godibile lo spettacolo al pubblico della prima è stata la risorsa del
comico attraverso la deformazione parodistica dei personaggi e delle
situazioni, nei tempi scenici esatti, che tendono all’umorismo e alla
satira per far ridere il pubblico non per una valutazione farsesca ma
per l’amara riflessione di come solo la risata può svelare, far capire,
assolvere, condannare, più di quanto, a volte, non possa fare la
rappresentazione drammatica. Infine un cast di attori favolosi in cui la
regia ha mediato, sviluppato percorsi e situazioni per fare esplodere
contraddizioni e risate attraverso un sagace impiego attorale di ottima
resa.
Francesco Paolantoni ha saputo disegnare la pochezza morale del
personaggio, la sua meschinità, la sua esuberanza virile, con una
comicità straripante che è diventata esilarante nei colloqui con don
Lollò (Tuccio Musumeci) ricorrendo all’uso del grammelot per arricchire
ancor più la comicità della situazione ma quelli che ci sono sembrati
eccelsi nei loro ruoli sono Pippo Patavina e Tuccio Musumeci un
capo mafia indimenticabile perché ridicolo e feroce insieme, dal
tempismo eccezionale nel gioco comico che raggiunge vertici
inimmaginabili nella resa comica quando don Lollò e Filippo Mancuso (Pattavina)
si incontrano per una raccomandazione evasa positivamente come deducono
dalla lettura di una lettera, un vero saggio di bravura sugli equivoci,
gli spropositi, le gag in cui la voce, il tempo e la gestualità creano
l’atmosfera e la magia della risata. Irresistibile lo sono anche nei
“duetti” con gli altri attori, in particolare Pattavina impegnato in ben
sette personaggi in un gioco virtuosistico di travestimenti in cui il
nuovo “volto” del personaggio ne esplicita il gioco. Questi “duetti”
hanno rivelato anche un’ eccellente Alessandra Costanzo nel delineare il
solare, fresco, genuino personaggio di Taninè ma anche un’attrice col “
dono di Dio” della comicità sia nelle scene coniugali con Paolantoni che
in quella della confessione con Pattavina nelle vesti del prete in cui
entrambi trasformano una situazione imbarazzante in una esplosione
comica.
Ben delineata ma resa con leggerezza ironica da Gian Paolo Poddighe
la “follia” del Prefetto Marascianno, che non ha il minimo dubbio di
avere scatenato una catastrofe tragica. Angelo Tosto e Pietro
Montandon interpretano i loro ruoli fra il serio e il faceto
sottolineando il loro grande senso di responsabilità dei loro personaggi
anche quando, ingiustamente, vengono trasferiti in Sardegna. Marcello
Perracchio è il suocero di Genuardi e ha un ruolo più tragico che
comico anche se s’ inserisce con bravura in questa orchestrazione
comica. Altri “uomini feroci” o espressioni di quel legno storto di cui
è fatto l’uomo in questa vicenda sono lo Strillone e lo sciocco Caluzzè
spia fedele di Nenè Schilirò esprimono il sadico piacere di pescare nel
torbido nel rendere cattiva la notizia. Franz Cantalupo è Gegè il
guardaspalle di don Lollò, un’ esilarante caratterizzazione. Così pure
Valeria Contarino, Angela Leontini, Giampaolo Romano e Sergio
Seminara.
Pubblico numeroso e attento che ha riso ed applaudito calorosamente uno
spettacolo godibilissimo con attori di rara bravura.