Come spiegare la storia del comunismo ai malati di mente
di Carmelo La Carrubba




Il testo dell’autore rumeno naturalizzato francese Matel Visniec “Come spiegare la storia del comunismo ai malati di mente” (2000) traduzione di Sergio Claudio Perroni è arrivato, dopo tanto clamore, al Centro Zo per lo Stabile di Catania che l’ha prodotto. La scena ben articolata è di Giuseppe Andolfo, la regia di Gianpiero Borgia. Lo scrittore Visniec (1956) è considerato l’erede di Ionesco e il suo modo paradossale di trattare l’argomento fa supporre che sia anche un autore comico.

Ma di comico nello spettacolo in oggetto nemmeno l’ombra, forse per la traduzione ma sicuramente per l’impostazione registica. La vicenda è ambientata nella Russia di Stalin del 1953 quando il dittatore concluse la sua esperienza terrena. Il protagonista dello spettacolo è un intellettuale Yuri Petrovski, ben interpretato da Angelo Tosto che viene inviato dal sindacato degli scrittori in un manicomio per spiegare ai degenti la storia del comunismo nella presunzione che questo possa fare rinsavire i pazzi. Il protagonista, nello svolgere il suo compito, avverte l’insostenibile contraddizione che esiste nell’ospedale-prigione, così la sua esperienza diventa una presa di coscienza. Perché ? Ma perché lo scrittore prima convinto della bontà del suo compito alla fine si convince della incongruenza del sistema sovietico e non trovando altra alternativa, passa dalla parte dei malati. Diventando anch’egli un malato o – data la reale situazione politica – un dissidente.

 

Angelo Tosto, nei panni dell’intellettuale engagé, ne disegna la figura con ricchezza di notazioni psicologiche e la umanizza facendola passare dalla parte dei deboli. Gianpiero Borgia nella messa in scena ha attenuato fino ad eliminarli gli aspetti grotteschi optando per una rappresentazione seriosa che non è realista, né comico-grottesca, né metaforica, né drammatica.

 

I due atti, ambientati nell’ospedale psichiatrico forse vogliono richiamare l’attenzione su come viva un popolo sotto la dittatura dove non era pensabile il ridicolo anche se la storia del comunismo ha avuto una fine amaramente comica. Perché la comicità è insita nella dittatura come dimostrò magistralmente Chaplin e come confermò il regime sovietico quando cadde per sua implosione. Pertanto lo spettacolo si svolge in un clima tetro che Franco Buzzanca ha sottolineato con i suoi grigi che rendono ancor più livida quella realtà. Come realista è la figura ben disegnata da Annalisa Canfora, l’infermiera stalinista che si muove con sicura determinazione in un luogo così squallido. Hanno ben caratterizzato i loro personaggi gli altri componenti del cast da Gianpiero Borgia a Christian Di Domenico, a Giovanni Guardiano, Daniele Nuccetelli, Alessandra Barbagallo, Giorgio D’acquisto, Salvo Disca, Liborio Natali, Chiara Seminara. Donatella Capraio ha curato i movimenti coreografici e tutti hanno intonato il Canto del partigiano. Spettacolo che ha una sua logica ben rispettata dal pubblico che credo non l’abbia condivisa per come è stata sviluppata ma che ha applaudito, come il sottoscritto, la fatica degli attori e di tutti gli altri professionisti, perché, in sostanza, lo spettacolo non racconta e non fa capire ai giovani a cui è intirizzato quanto promesso nel titolo.