Viaggio in
Viet-nam e Cambogia
Risale al 2001 il mio viaggio in Viet-Nam e Cambogia.
Proprio a ridosso dell’11 settembre il tragico attentato alle Torri
Gemelle. La mia prima reazione era stata di sgomento e di terrore. “Non
parto più”. Avevo già preparato quel viaggio da lungo tempo vagheggiato
e, per vari motivi, rimandato.
Quelle immagini devastanti facevano apparire pura follia pensare ad un
viaggio così lungo, così lontano e l’aereo come mezzo di morte e di
terrore. Poi subentrò una fredda rabbia, rabbia verso chi vuole metterci
in ginocchio, farci vivere nel terrore, spadroneggiare sulla nostra
vita. Così riprese sopravvento il raziocinio: è più rischioso camminare
sui marciapiedi della mia città che restare vittima di un attentato:
quante volte mi sono vista venire quasi addosso motorini e grosse moto
mentre cammino tranquilla, quante volte devo scansarmi da un auto che
non rispetta le strisce pedonali! E penso pure a quella coppia di
sposini che, per paura di recarsi a Sharm-l-Sheik decidevano di recarsi
in Danimarca e sono morti sulla pista di Linate ed io, una settimana
prima, ero andata in tutta tranquillità sul Mare Rosso!
Dunque ho deciso, confermo la prenotazione e, a fine ottobre, con un
gruppo del T.C.I. sono partita in barba a Osama Bin Laden e a tutti i
forieri di sciagura come lui.
L’aereo è solo per metà occupato nella classe
turistica mentre quella VIP è del tutto vuota; il viaggio Roma-Bankok
dura due ore più di prima perché la rotta è stata
allontanata
dal teatro di guerra. Hanoi mi appare sotto un cielo grigiastro,
siamo alla fine della stagione delle piogge ma i rovesci sono ancora
continui; il caldo è come una morsa umida che ti fa sentire come se
uscissi da sotto una doccia bollente. Come altre grandi capitali, Hanoi
è soffocata dall’inquinamento e dal traffico, anche se le auto
sono poche e molto vecchie. In compenso, le strade sono fiumi di
biciclette, motorini e bus scassatissimi che scorrono a folle
velocità senza regole, senza semafori, senza vigili, senza strisce
pedonali, senza nulla ma anche senza incidenti, senza scontri. Ha del
prodigioso ma uomini e mezzi si incrociano, si intersecano, si sfiorano,
sembra che debbano urtarsi ma, come gli atomi di Epicureo, all’ultimo
momento, deviano e proseguono indifferenti. Non un muscolo del viso si
contrae, non una parolaccia, non un gesto. Solo un colpo di clacson,
secco, stridulo, lancinante; così si viaggia per le strade del paese con
le orecchie lacerate dai continui suoni di clacson.
Le strade non sono lastricate, fango e melma dappertutto ma la gente
circola con sandali, svolge tutta la sua attività per la strada. Le
mercanzie sono esposte in quel via vai di gente e di mezzi, alla polvere
e agli scarichi, anche i cibi vengono cotti fuori e animali vivi e
morti, frattaglie ed interiora fanno mostra di sé sui banchi in precario
equilibrio.
La guida ci dice che il mangiare, il rito del
mangiare come esiste da noi, non esiste in Viet-Nam o Cambogia, ma
ciascuno mangia quando, dove e cosa vuole: il riso, è naturalmente, il
pasto principale, si vende già cotto e confezionato in piccoli
contenitori di foglie di cocco e immense risaie caratterizzano il
paesaggio vietnamita dove l’acqua domina sovrana. E sono legati ad essa
i due più straordinari spettacoli che la Natura possa offrire: la
baia di Ha-Long e il Delta del Mekong.
Più
di 1500 scogli di varia grandezza svettano dal mare nella baia di
Ha-Long, immaginate I Ciclopi di Trezza moltiplicati per più di
mille in un mare infinito dove un cielo cinerino cala un velo
all’orizzonte immergendo la baia in una atmosfera onirica; e fra questi
scogli, denti di drago, dietro i quali si nascondevano pirati si formano
grotte dove enormi stalattiti creano uno scenario dantesco. Ho detto
“pirati” e per associazione si pensa a quelli della Malesia, salgariani
come salgariano è il paesaggio del Delta del Mekong, fiume che
attraversa, oltre al Viet-Nam, la Cambogia e il Laos. In un intrigo
fittissimo di canne, alberi,cactus, liane, le barchette s’inoltrano
mentre uccelli variopinti fug gono
al nostro passaggio e scimmiotte saltano fra gli alberi. La vegetazione
è fitta, bisogna talvolta abbassare la testa per non prendere in pieno
una “craniata” ma si intravedono povere capanne dove vivono i pescatori;
vediamo bimbi seminudi correre sugli spiazzi, anatre, galline e polli
ruzzare in libertà, panni stesi al pallido sole che fa capolino da un
cielo sempre impastato di pioggia. Assistiamo al ciclo della
lavorazione della palma di cocco con cui fanno dalle caramelle agli
oggetti più svariati, più in là ci offrono the e frutta e un concertino
di musiche e canti locali.
Sono gentili, hanno capito che il turismo sarà una risorsa per la loro
economia e letteralmente si buttano addosso ai turisti con l’eterna
richiesta “one dollar, one dollar” : cartoline, caramelle di cocco,
francobolli, rosari buddisti, ventaglietti e pettinini, “ tutto one
dollar”. Lascio parte del mio cuore sul Mekong, l’ultimo dei fiumi da me
percorsi e anche se mi sono inoltrata soltanto sul suo delta, quel
giorno resterà per me indimenticabile.
Prima di lasciare il Viet-Nam, di prammatica la
visita al sentiero di Ho-Chi-Minh, un dedalo di cunicoli scavati
sotto terra al tempo della guerra con gli Americani. Anche se le tracce
del lungo conflitto sono evidenti – le macerie dell’antica capitale
Hue e soprattutto del Palazzo imperiale che ricorda in
piccolo la Città imperiale di Pechino, donne e ragazze mutilate dalle
mine – i vietnamiti non vogliono né ricordare né parlare di quel
conflitto – ma c’è ancora un solco profondo tra il Nord e il Sud e
se al Nord l’atmosfera è un po’ cupa, se ad Hanoi vi portano a visitare
il Mausoleo di Ho-Chi-Minh, brutto come tutti i monumenti del comunismo
e mostrano un odio profondo verso gli Americani, quando si scende giù,
l’aria sembra più leggera e gli abitanti continuano a chiamare la loro
capitale Saigon e non Ho-Chi-Minh come è stata ribattezzata secondo
l’uso dei Paesi comunisti.
A
Saigon è ancora presente, più che al Nord, l’impronta lasciata dai
Francesi, nell’architettura, nella toponomastica, nella forma del pane,
nell’uso del burro, nella chiesa di Notre-Dame che imita in formato
ridotto quella di Parigi. La cucina vietnamita è basata – naturalmente –
sul riso e sui prodotti del mare e dei fiumi, su verdure e spezie in
abbondanza, presente anche la carne soprattutto di maiale, pollo e
anatra ma è comunque una cucina monotona che non ha certo la ricchezza e
il gusto di quella cinese di cui è la parente povera.
Il paese è ufficialmente ateo ma sono tollerati i culti e la religione
più diffusa è, naturalmente, la buddista seguita a distanza
dall’induista, dall’islamica e, buon ultima, dalla cattolica. Tempi
buddisti, induisti, taoisti sono presenti in tutto il Paese, tenuti in
buone condizioni anche se non possono competere col fasto di quelli
tailandesi o birmani. Sono affollati di fedeli, cosa che non avevamo
visto in Russia dove le chiese ortodosse, al tempo di Lenin e Stalin
erano state del tutto cancellate. Ne abbiamo visitate tante anche se il
caldo feroce, umido, ci faceva boccheggiare poiché, al contrario delle
marmoree e fresche chiese cattoliche, nei templi buddisti si cuoce a
fuoco lento.
Lasciato il Viet-Nam alle nostre spalle atterriamo in
Cambogia, un’estesa pianura verdeggiante percorsa anch’essa da
fiumi, fitta di foreste dal clima ancora più caldo ( sembrerebbe
impossibile ma purtroppo è così). L’aereo ci sbarca a Siem-Rep
proprio nel pieno della festa più importante del Paese, la festa
dell’Acqua che conclude la stagione delle piogge. Ci troviamo nel
mezzo di una folla straripante lungo le sponde del fiume dove festoni
colorati aquiloni, fiori di carta e nastri multicolori sottolineano le
gare delle imbarcazioni che solcano le acque e bambini, ragazzi e adulti
si tuffano schiamazzando felici. Tutti sono presi dai festeggiamenti
locali e non si curano di noi stranieri, non ci assillano con le loro
mercanzie, solo una ragazzina mi sbircia timidamente, forse incuriosita.
L’inquadro con la macchina fotografica, lei sorride eccitata, la clicco
e lei sembra fuori di sé dalla gioia, lo dice agli adulti che ha vicino,
mi addita quasi con orgoglio e, quando mi allontano, mi segue con gli
occhi, al mio cenno di saluto sventola allegramente le braccia brune e
nude.
Ed
eccoci ad Angkor. Ne avevo sentito, letto e visto qualche
immagine ma la realtà supera ogni immaginazione. Questa antica
capitale della civiltà Kmer, costruita intorno al 1100 d.C. e
abbandonata quasi dopo due secoli all’assalto della foresta, scoperta
verso la fine dell’Ottocento ma sostanzialmente venuta alla luce nella
seconda metà del secolo scorso, ha del fiabesco intrecciata com’è alla
fitta vegetazione che crea inimmaginabili effetti in cui i rami sembrano
enormi dita che stringono e soffocano ma tengono ancora in piedi le mura
di questa città. Se il complesso di Ancor-Mat è il più famoso ed
imponente, molti altri presentano elementi di suggestione unica e forse
quattro-cinque giorni non basterebbero a visitarli tutti. Ma il tramonto
sulla scalinata di Ancor-Mat con la luna piena dietro la cinque Torri e
il sole che annega in un mare di luci rosse dinanzi a noi è una di
quelle sensazioni che vale da sola il viaggio. E su questa scena,
riflettiamo su un popolo che è stato protagonista di uno dei più feroci
genocidi del Novecento e tutt’ora vive in precario equilibrio tra i
guerriglieri kmer nascosti nella jungla a Nord e una parvenza di
normalità al Centro-Sud. L’Occidente ha calato il silenzio su Pol-Pot e
i suoi carnefici quasi a rimuovere un senso di colpa per non aver
fermato quel boia assetato di sangue, anzi forse per averlo portato ad
esempio di comunismo; ma il museo nazionale detto anche Museo degli
Orrori a Phonm-Penh testimonia e ricorda agli smemorati quell’immane
carneficina. Ancora molto resterebbe da dire, ma spero di avere dato
almeno un’idea e, perché no, avere suscitato in qualcuno il desiderio di
constatare di presenza quello che io ho visitato sei anni fa.
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